Come aiutare i bambini a gestire le emozioni

Sul ruolo delle parole

A fronte dell’argomento mi si sono presentati tre scenari diversi e inaspettati, i cui protagonisti sono bambini e bambine, e si riferiscono al presente, al passato remoto e a quello più prossimo. Tre scenari che mai avrei immaginato di accostare. La bellezza del pensiero emotivo è anche questa: è capace di mettere assieme cose che sembrano non avere molto in comune da un punto di vista logico, ma unite nella memoria affettiva sanno incidere su quello che pensiamo.

Uno: Osservando la piccola libreria di mia figlia, mi accorgo che lei possiede già sei titoli a tema “emozioni”, e penso che sono tanti, se considero che corrispondono esattamente al doppio dei suoi anni. Sono stata io, affascinata dalla bellezza di certi albi, che non ho potuto resistere. Nella nostra cucina, poi, campeggia in bella vista una banda cartonata su cui abbiamo attaccato le faccine di sei “mostri emozionati”: all’inizio quotidianamente, ora nei momenti di “crisi” in corso ‒ suoi o nostri ‒, ognuno contrassegna il proprio stato d’animo con una molletta dei panni, e cerchiamo di descrivere come ci sentiamo e perché. Certo, la crisi non sparisce, ma raccontarla agli altri con parole semplici, e contestualmente prestare attenzione a come stanno loro, aiuta a prendere diverse misure e prospettive anche nei confronti di sé stessi.

Non ho mai avuto il progetto di educare alle emozioni. Mi sono ritrovata ad agire così, abbastanza inconsapevolmente, forse rispondendo a un bisogno indotto: vanno in questa direzione i giochi e i libri in commercio, in questa direzione i cartoni animati attuali, in cui anche la delusione per un giocattolo rotto o la rabbia per un’influenza vanno sviscerate, espresse e soprattutto dialogate.

Mi chiedo, a volte, se tutte queste parole non siano troppe, se per un bambino non siano altrettanto importanti momenti in cui starsene in silenzio, in compagnia di ciò che sentono.

Due: Ricordo il tempo in cui le mie emozioni di bambina non avevano parole: si traducevano direttamente in azioni.

Così, forse, mi comportavo in modo bizzarro: tagliavo la coda alle lucertole, per poi ucciderle impietosamente e farle essiccare al sole, oppure mi mettevo a battere ripetutamente la testa sul pavimento. Spesso e volentieri, poi, “scappavo di casa”: infilavo spazzolino, intimo e pigiama di ricambio in una busta della spesa e prendevo la porta, per andare a rifugiarmi su qualche marciapiede del quartiere, oppure da questa o quell’altra vicina. A meno che non fossimo lesivi verso qualcuno, non si usava chiederci il perché di ciò che facevamo. Quando ancora oggi mi raccontano quelle fughe, e si ripropongono le stesse risate che accoglievano i miei ritorni facendomi innervosire ancora di più, potrei concludere frettolosamente che il nostro mondo emotivo di bambini e bambine non venisse preso sul serio. Poi considero la sola idea che mia figlia scappi di casa o si spacchi la testa sul pavimento: mi accompagnerebbe un pàthos così eccessivo da farmi morire d’infarto; allora penso al potere dell’ironia, a quanto sappia essere acuta e lungimirante.

Certo, altri momenti dell’infanzia non avevano nulla di comico, come quando capitava che mia sorella venisse sgridata e punita per qualche ragione. Puntualmente ero io a scoppiare a piangere, così un bel rimprovero toccava anche a me: le mie lacrime non erano “giuste” per la situazione, ma da piccola non sapevo proprio che farci se quelle uscivano.

Era così che vivevo in un calderone di emozioni, eppure i ricordi che mi restano sono muti, perché a casa, né tantomeno a scuola, c’era uno spazio per parlarne con qualcuno.

Ripensandoci a distanza di decenni, mi chiedo se non stia qui il motivo per cui non saprei dire con certezza se io sia stata una bambina felice.

Tre: Qualche anno fa, mentre siamo in cerchio per un laboratorio di filosofia in una classe seconda della primaria, la discussione prende pieghe impreviste. Nizar, un bambino di origine araba arrivato da qualche anno in quel paesello di campagna, è il più scalmanato, di quelli che disturbano e sembrano non prestare attenzione. Parliamo insieme di esseri umani, bambole, animali, e parliamo di parole, della loro utilità. C’è chi, quando ha paura, stringe un pupazzo capace di dargli sicurezza anche se non sa parlare. C’è chi sottolinea quanto a volte le parole siano inutili: “Anche una mamma-cane si accorge se il suo piccolo è triste, e lo consola con una leccata, proprio come fa la mia quando mi abbraccia se mi è successo qualcosa di brutto”. “E poi” aggiunge una bambina, “pure se non capisco un cinese, quando lui mi parla, mi accorgo se mi sta dicendo qualcosa di bello o se ce l’ha con me.” “Ma almeno te lo dice!” risponde un altro, “Il cane, invece, se è arrabbiato non ti dice un bel niente, ti morde e basta!”. Con la coda dell’occhio capto l’attenzione di Nizar, così gli domando cosa pensa di questa storia. Pronuncia una parola che non comprendo, con un’espressione mista di sfida e tristezza, e la maestra mi riporta che non è la prima volta che la usa.

A conclusione, i bambini fanno un disegno libero su un foglio. Ricordo ancora quello di Nizar: un arciere scaglia delle frecce che trafiggono il petto di una persona inerme. È corredato da una didascalia sul retro: “Quando penso alla morte e alla notte, penso alle parole. Le parole sono come una freccia, che quando ti colpisce fa più male di una pistolata al cuore. Mi è successo tante volte a scuola”. Se la parola segreta di Nizar resta un mistero, mi interrogo sull’importanza e la potenza trasformativa di altri mezzi espressivi, come il disegno, per veicolare messaggi e stati d’animo.

Non so quale sia la strada tra eccesso e assenza di parole, quando sono in gioco le emozioni.

Mi auguro una cosa soltanto: che ciascun bambino e ciascuna bambina si trovino sempre nella condizione della possibilità di dire, che venga tutelato il loro diritto alla parola e di parola.

A noi grandi sta il compito di garantirlo: fornendo loro gli strumenti di espressione necessari e gli spazi per dargli voce, e poi ricordando che si tratta di un diritto e non di un dovere, quindi anche accettando che questi spazi restino disabitati, rispettandone i silenzi. Ciò che conta, credo, è che tutte e tutti abbiano parole per le proprie emozioni, siano esse anche matite colorate.

Magari saranno pronunciate e condivise, o magari saranno parole che diranno solo a sé stessi.

Purché le abbiano.

Irene Merlini
Irene Merlini
+ articoli dello stesso autore

Laureata in Filosofia alla Statale di Milano (2003), si specializza nella stessa città in Counseling e pratiche filosofiche. Tornata in Abruzzo, dal 2005 interviene nelle scuole di ogni ordine e grado per la formazione di alunni e insegnanti nell’ambito della Philosophy for children/community. Specializzata a Macerata nel sostegno didattico (2020), attualmente è insegnante nella scuola secondaria di secondo grado.

Da dieci anni collabora con il settore dell’editoria per bambini, come autrice di testi e filastrocche, ideatrice di giochi da tavolo e applicazioni multimediali.
Co-autrice del libro “Perché? 100 storie di filosofi per ragazzi curiosi” (Merlini I., Petruccelli M., a cura di Galumberti U., Feltrinelli 2019), precedentemente co-autrice di “Le pecore Filosofe. Dove sono io?” (Merlini I., Petruccelli M., Ed. Esperidi, 2015), cura assieme a Maria Luisa Petruccelli la rubrica filosofica “La posta del Cigno Nero” su Gli Stati Generali.