Empatici si nasce o ci si diventa?
La parola empatia fa la sua comparsa per la prima volta nel diciannovesimo secolo in ambito estetico, dove viene usata per indicare l’effetto che le opere d’arte hanno su di noi. Successivamente il filosofo Theodor Lipps amplia il suo significato estendendolo anche all’aspetto intersoggettivo, cioè alla relazione con gli altri. Nata nel mondo dell’arte, dunque, questa capacità si è dimostrata nel corso del tempo fondamentale nei contesti più diversi e insoliti, dal mondo aziendale a quello scolastico; cosa che ne sottolinea l’impatto decisivo, ad esempio, nelle dinamiche decisionali e di problem solving, o in quelle legate all’apprendimento.
La definizione più bella, oltre che esatta di empatia la dobbiamo alla filosofa Edith Stein, che la definisce il presupposto di quell’esperienza intima del “sentire insieme”, che origina da un “rendersi conto” degli stati emotivi degli altri.
Ma empatici si nasce o lo si può diventare?
Recenti scoperte nel campo delle neuroscienze ci dicono che siamo biologicamente predisposti all’empatia: attraverso l’esperienza diretta del nostro corpo riconosciamo gli altri come simili a noi e possiamo perciò percepire, comprendere e immaginare i loro stati interiori. Le emozioni hanno perciò una grande importanza in questa dinamica, dal momento che rendono possibile un vero e proprio incontro fisico con gli altri.
Molti studi di psicologia dell’età evolutiva sottolineano come nella relazione madre-bambino l’empatia giochi un ruolo centrale, essendo un mezzo naturale di contenimento dell’aggressività e quindi fonte motivazionale per lo sviluppo di un comportamento morale e sociale. Già a partire dallo stadio neonatale i bambini possiedono un’ ampia gamma di emozioni che emergono nella comunicazione con la madre o più in generale con le figure di accudimento. La tendenza ad essere empatici sarà perciò influenzata dall’esperienza che ogni bambino ha con i propri genitori.
Il “sentire insieme” come tramite per la consapevolezza
Dal momento che il primo ambiente di interazione sociale per i bambini è quello familiare, è importante che in questo contesto vi sia spazio per una comunicazione incentrata sul corpo e sulle emozioni, i due aspetti imprescindibili per lo sviluppo della capacità empatica.
Accogliere le emozioni dei figli piuttosto che sminuirle o giudicarle sbagliate o esagerate, incoraggiarne l’espressione invece di forzarne i tempi o di imboccare le parole per esprimerle, li aiuterà a formarsi un vocabolario affettivo adeguato per conoscersi attraverso l’espressione del proprio stato d’animo. Allo stesso tempo limiterà quel senso di confusione e quindi di smarrimento che si prova per ciò che si sperimenta a livello fisico come effetto di ciò che si sente a livello emotivo.
Ad un bambino che piange non ci rivolgeremo allora dicendogli: “non piangere!”, o peggio ancora “hai mai visto tuo padre piangere?”, “le persone forti non piangono mai”; ma chiedendo: “perché piangi?”. Questa domanda, se da un lato gli fa capire che diamo importanza a ciò che sta provando in quel momento, dall’altro lo esorta a parlarne.
E lo stesso vale per le altre emozioni, dalla rabbia alla gioia, nessuna delle quali dovrebbe essere ignorata. L’opposto dell’empatia, infatti, è proprio l’indifferenza, una neutralità emotiva nei confronti del proprio mondo interiore così come di quello esteriore. Un bambino che è a proprio agio con il suo universo emotivo sarà un bambino attento e sensibile anche a quello degli altri, un bambino in grado di “rendersi conto”. Ed è proprio attraverso questo rendersi conto che potrà orientarsi al meglio nelle relazioni sociali, dal momento che l’empatia rappresenta la premessa per quel sentire più ampio che si esprime a livello sociale con la compassione, l’altruismo, la solidarietà. Così come consente, laddove sia necessario, di prendere le distanze da comportamenti, credenze o giudizi in cui non ci si riconosce.
Si tratta di quella che Edith Stein chiama “empatia negativa”. L’esempio forse più inequivocabile di quanto questa capacità, a dispetto di ciò che comunemente si crede, non sia un identificarsi o fondersi con l’altro, ma la strada giusta per custodire la propria unicità e per acquisire maturità a livello emotivo.

Maria Luisa Petruccelli
Laureata in filosofia alla Statale di Milano e specializzata in counseling e pratiche filosofiche, sempre a Milano, progetta, realizza e conduce corsi e laboratori di pratiche filosofiche in diversi contesti, e di Philosophy for Children nelle scuole, dove tiene anche incontri sul bullismo. Ideatrice dei personaggi “Le pecore Filosofe”, è co-autrice, insieme a Irene Merlini, del libro Le pecore filosofe: dove sono io? (Ed. Esperidi 2015), e di Perché? 100 storie di filosofi per ragazzi curiosi (Feltrinelli, 2019, a cura di U. Galimberti). Cura, sempre insieme a Irene Merlini, la rubrica di filosofia “La posta del Cigno Nero” su Gli Stati Generali
